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Siamo disorientati. Prima la pandemia, non ancora conclusa, e ora la guerra così vicina. Questa continua esposizione all’imprevedibile genera di certo una profonda reazione di ansia in tutti che può trasformarsi in patologia per non pochi. La concreta vicinanza fisica del conflitto, le sue possibili ricadute su di noi e sul mondo, l’esposizione visiva alle notizie come mai prima, un maturato senso di Europa e molto altro ci fanno vivere una condizione di traumatica cronicità le cui conseguenze non sono ancora del tutto valutabili. Di fatto, siamo esposti alle notizie anche quando le vorremmo evitare per cui una cosa è certa: non si espongono bambini e ragazzi, diciamo per dovere d’informazione, a situazioni per le quali non hanno soluzioni e che li renderanno più tristi e impauriti di quanto già non siano.
Non si tratta di bambagia, ma di portare pesi calibrati alle spalle. Non si tratta di prosciutto sugli occhi, ma di tenere presente che in Italia, già prima della pandemia, il suicidio rappresentava la seconda causa di morte dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni. Forse abbiamo insegnato tutto, tranne che a vivere cercando di essere felici? Credo stia a noi adulti fare in modo che i giovani, i nostri figli, non si aspettino una vita peggiore della nostra, che stia a noi, e non a loro, comunicare creatività e resilienza, in una parola speranza. “Non basta che i giovani siano amati, ma che capiscano di essere amati” scriveva don Bosco nel 1884 in una lettera inviata ai salesiani di Valdocco. Certo, non è facile rivolgersi alle nuove generazioni senza rischiare i luoghi comuni di sempre, le generalizzazioni e perfino le banalità. Credo che il nostro compito sia non lasciarli soli veramente, dimostrando che teniamo alla loro felicità e realizzazione di qualunque cosa si tratti, che puntiamo alla loro integrità senza moralismi, che proveremo insieme a loro a fare brainstorming perché c’è sempre una soluzione ed una via d’uscita, sempre che non ci censuriamo a priori e a prescindere.
Ovviamente, possiamo ancora cercare di innalzare la nostra soglia di frustrazione e tentare di trasformare l’evento negativo in fonte di apprendimento, certo. Possiamo anche realisticamente smettere di credere unicamente alle soluzioni che attingono alla razionalità e al così detto buon senso umano. In fondo, già secoli or sono Hegel ammoniva che “Tutto ciò che l’uomo ha imparato dalla storia, è che dalla storia l’uomo non ha imparato niente”. Perché dunque si dovrebbe coltivare la speranza? Perché è la vita stessa a chiederlo come prerequisito per affrontarla, perché non farlo non migliora la situazione nostra e degli altri, perché non si può cambiare il mondo ma il proprio atteggiamento sì, perché dalle crisi escono talenti che diversamente mai avremmo scoperto. Quindi insegniamo a non mollare! E non molliamo, cercando in noi quella Voce che dal roveto ardente da sempre assicura e rassicura “Io-ci-sono”.