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L’isolamento sperimentato in fase uno è stata una condizione dovuta ma innaturale che ha messo a dura prova tutti quanti. Dopo aver appreso le caratteristiche dell’emergenza, abbiamo capito che lo stare a casa andava gestito e non subìto. Ci siamo perciò impegnati evitando il pigiama di giorno, non trascorrendo intere giornate davanti ai notiziari o sui social, mantenendo i contatti umani con le videochiamate, facendo attività fisica e, per i più arditi, affrontando i lavori di casa procrastinati da sempre. Cercando insomma di mantenere una nuova normalità e dandosi delle routine costruttive e rassicuranti. Ora comprendiamo quanto sia indispensabile la cosidetta fase due, quella che coniuga la sicurezza sanitaria (distanziamento sociale, uso di mascherina e guanti dove richiesto, rinuncia al saluto con stretta di mano e abbraccio) con la salute mentale ed economica delle persone e delle famiglie.
Dalla comune consapevolezza che la scossa è stata forte, improvvisa e duratura possiamo farci attenti per recuperare presto i danni della quarantena ed evitare il crollo della fiducia. Pensiamo alla possibile perdita di autonomia nelle persone anziane e di visibilità sociale in quelle disabili, all’uscita di casa dei genitori per lavoro avendo i figli non custoditi dalla scuola in presenza, senza dimenticare il burn out degli eroici operatori sanitari. Tutti coloro che in questo periodo non hanno lavorato, hanno vissuto in una specie di comfort zone domestica distante dal confronto con gli altri e dalla solita frenesia. La casa è diventata, per un po’, un luogo dove poter essere pigri per decreto senza doversi giustificare. La quarantena ha dato cioè vita a una sorta di regressione collettiva, esente da sensi di colpa, essendo stata obbligatoria: un limbo che ha messo in pausa preoccupazioni e possibilità, gioie ma anche ansie, decisioni da prendere, cose da fare. Ripartire, voluto ma affatto facile, significherà rimettersi in gioco e far tornare tutto ciò che era stato messo in stand-by. Una questione piuttosto delicata sarà capire se un proprio familiare, complice il lavoro o la scuola da casa o purtroppo la disoccupazione, non stia in realtà sviluppando un disagio di ridotta interazione sociale. Si tratterà cioè di fare attenzione alle condotte sproporzionate di chi non se la sente di uscire di casa per rientrare in un mondo così cambiato, con sintomi evidenti quali il non alzarsi dal letto o dal divano, o sintomi più celabili come la paura di uscire di casa, degli spazi aperti e di ammalarsi. Per evitare conseguenze anche molto serie, chi uscirà per lavoro non dimentichi chi starebbe volentieri a casa e non faccia spese e commissioni per tutti, come quando poteva uscire uno solo per famiglia.
Appena possibile uscite invece come nucleo familiare tutti insieme, ogni giorno, a piedi o in bicicletta, inoltrandovi nella nostra bella campagna. Non solo ossigenerà le relazioni, ma anche farà uscire da sé chi si sta pericolosamente chiudendo. È evidente che quando una persona sta male si peggiorano solo le cose limitandosi a dire “mentre sono a lavorare, tu vai a farti un giro che ti avanza tempo”! A fronte di coloro che giustamente scalpitano, mossi dalla certezza che per vivere bisogna pur che qualcuno lavori anche per chi non lavora, altri invece potrebbero sentirsi travolti dalla tristezza o precipitati nell’apatia. Coraggio, nulla ma proprio nulla è perduto, se ci facciamo attenti e attivi per coloro che amiamo e che ci sono cari.